Rosa rosae. Nei giardini struggenti di questa città senza tempo, tra statue diafane che s’inarcano verso la luce con orgoglio dolente, i fiori declinano una breve e fragile esistenza, diluendo il loro profumo nella tiepida umidità dell’aria. Tutti insieme compongono una tavola cromatica di ostinata bellezza: voci limpide, pietre preziose. Acqua e terra. 

Terra che distilla le nostre vite di carne e sangue e ne condensa i nomi incisi sopra esili monumenti di granito, alla luce tremula di fiaccole di fede: Carlo, Lina, Giuseppe, Antonio, Sara, … Di noi che abbiamo vissuto tutti i nostri giorni non rimane che un album fotografico di volti incastonati nella pietra e sospesi in uno sguardo di consenso alla vita, che ci risparmia per sempre dall’ormai inutile giudizio sugli uomini e donne che fummo. 

Per tutti noi il cielo è un foglio dipinto di azzurro in cui splende un sole senza stagioni. Ci cullano il crepitio disuguale della pioggia nella notte prematura di un temporale estivo, le lucertole di verde smagliante che corrono tra foglie secche dorate dal sole, la morbida carezza del gatto che viene a riposare sulla liscia fredda lastra di marmo, il manto cinereo della luna squarciato dal verso della civetta, la tela del ragno che oscilla fiera al vento. 

Nei nostri piccoli splendidi giardini della memoria accogliamo i fiori di coloro che ancora ci amano e che, forse, non hanno mai perdonato il nostro abbandono. Ma anche se una voce dolente ci chiede “che fai laggiù tutto solo, perduto?”, le lacrime e il rimpianto non ci appartengono. Noi sorridiamo al bimbo che gioca con il sole a formare quelle strane ombre buffe sulle nostre pietre: il coniglio, il gallo, la colomba che vola lontano, perché nella nostra morte non c’è dolore.